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Quello che il consumatore deve sapere sui test per le intolleranze alimentari

Oggi molti di noi avranno un parente o un conoscente che si è sottoposto ad uno dei famigerati test per le intolleranze alimentari.

Tra i più diffusi abbiamo i seguenti: VEGA-test, Cito-test, DRIA-test, test muscolare kinesiologico, ALCAT-test, SARM-test, elettroagopuntura sec. Voll, Mora-test, Kondo-test, SAFT, il test del capello e le IgG anti-alimento (conosciuto anche come FIT, Food Intolerance Test).

Mi soffermerò in questo articolo soltanto sui test delle intolleranze alimentari che identificano anticorpi IgG anti-alimento (cioè rivolti verso proteine di origine alimentare)  per dimostrare come anche questo test, diffuso ormai anche nei laboratori di analisi delle aziende ospedaliere più blasonate, sia in realtà inaffidabile quanto gli altri sopra menzionati.

Oggi il FIT è proposto in molti laboratori o persino delle farmacie con pacchetti di 40, 100 o più alimenti che vengono testati ricercando nel sangue degli anticorpi rivolti verso tali alimenti. Il fatto che sia un test molto diffuso e che in alcune regioni sia addirittura convenzionato (cioè interamente o parzialmente gratuito a spese del sistema sanitario nazionale), farebbe pensare che sia qualcosa di serio ed utile.

Ebbene vi presento il caso di un bambino di soli 18 mesi sottoposto al FIT per degli episodi di vomito post-prandiale (cioè che si verificavano subito dopo il termine del pasto). Il suo esito è stato sconvolgente.

Nel sangue di questo bimbo sono stati rilevati anticorpi diretti contro decine di alimenti tra i quali farro, semi di senape e rafano, alimenti che non ha mai assunto. Come può aver fatto il sistema immunitario di questo bambino a produrre degli anticorpi diretti verso questi alimenti se non li ha mai introdotti nel suo organismo fino a quel momento?

Ebbene il sistema immunitario per produrre degli anticorpi rivolti verso un bersaglio (proteine di un alimento in questo caso) deve prima “processare l’antigene”. In pratica delle specifiche cellule immunitarie (cellule presentanti l’antigene) al primo incontro “digeriscono” quella sostanza e la presentano ad altre cellule immunocompetenti (linfociti). Se i linfociti riconoscono la sostanza estranea come realmente pericolosa allora questi indurranno la produzione di altre cellule linfocitarie e/o di anticorpi capaci di determinare reazioni pronte (più o meno rapide) nei confronti dell’antigene bersaglio qualora questo si ripresenti nell’organismo.

Quello che è accaduto a questo bambino, il quale purtroppo è stato avviato ad una dieta priva di glutine (per di più da medici), non si spiegherebbe nemmeno con il fenomeno di una cross-reazione, condizione in cui alcuni anticorpi potrebbero riconoscere bersagli simili, dando dei test con esiti falsamente positivi.

L’esempio appena presentato è solo la punta dell’iceberg che smonta l’utilità dei test IgG anti-alimento.

Ogni giorno, fino a 2-3 grammi di proteine alimentari attraversano indigerite la parete intestinale riversandosi in circolo, pertanto è plausibile che il sistema immunitario processi alcune di queste proteine e produca ad esempio anticorpi IgG.

In medicina, ma soprattutto in allergologia (chi vi scrive è specialista in allergologia ed immunologia clinica) non è sempre sufficiente un test in vitro (cioè un test di laboratorio) o un test in vivo (praticato cioè direttamente sulla persona, come lo skin prick test) per porre una diagnosi, ma bisogna correlare l’esito dei test alla storia clinica presentata dal paziente.

Infatti se ognuno di noi ricercasse nel sangue gli anticorpi IgE (quelli implicati nelle reazioni allergiche) diretti verso pollini o alimenti sarebbe frequente il riscontro di positività non correlate ad alcuna malattia allergica, in pratica si possono avere delle IgE circolanti rivolte verso proteine del latte o verso il polline di parietaria senza avere alcun sintomo al contatto con queste sostanze. Queste IgE circolanti possono ovviamente essere responsabili anche di uno skin prick test positivo.

In tutti questi casi si parla di sensibilizzazione allergica subclinica, in quanto tali IgE non inducono una manifestazione clinica di malattia.

Quindi se anche dei test in vitro o  in vivo scientificamente validati come la ricerca di IgE specifiche e lo skin prick test possono non essere espressione di malattia, perché essere ossessionati dalle IgG anti alimento o ad un test kinesiologico o ad un Vega-test?

Ricordiamo che il sistema immunitario è un sistema complesso che vede implicati numerosissimi attori (cellule) e numerosissimi sistemi di controllo (responsabili di un fenomeno definito tolleranza), e la sua azione non è di tipo on-off (effetto interruttore) ma è continuamente modulata, in ogni momento della nostra vita.

In allergologia, di fronte ad un test positivo (sia esso in vitro che in vivo), che non correli chiaramente con la clinica (cioè con i segni e sintomi riferiti dal paziente), si esegue il cosiddetto test di esposizione, detto anche test di provocazione.

In pratica nel sospetto di una allergia al latte, si somministra il latte a dosi crescenti secondo un protocollo standardizzato osservando i segni ed i sintomi che compaiono nei minuti o nelle ore successive alla somministrazione.

Questo tipo di test si svolge in un ambiente sanitario protetto, ovvero con definiti requisiti di sicurezza.

C’è da dire che le aziende che propongono FIT con IgG anti-alimento, come unica nota di onestà intellettuale, sulle loro brochure oppure sui siti web, propongono di verificare con un test di esposizione l’intolleranza agli alimenti eventualmente risultata usando il loro kit, ma nessun medico o biologo segue questa procedura, perché richiederebbe troppo tempo e troppa pazienza.

Poniamoci un’ultima domanda: cosa accadrebbe se questi anticorpi IgG anti-alimento entrassero realmente in funzione quando ingeriamo  l’alimento bersaglio?

Esiste un ampio spettro di malattie che potrebbero essere causate da una risposta anticorpale IgG-mediata nei confronti di un antigene e tali malattie sono classificate in due grossi gruppi: quello delle ipersensibilità citotossiche e quello delle ipersensibilità da immunocomplessi.

Nelle prime gli anticorpi si legano alla superficie delle cellule bersaglio ed attivando il complemento (un altro componente del sistema immunitario)  inducono effetti citolitici e/o citotossici, cioè distruggono la cellula bersaglio.

Esempi di questa forma di ipersensibilità sono le anemie emolitiche, le leucopenie e le trombocitopenie da farmaci.

Con gli alimenti questo processo patologico non può realizzarsi in quanto nel sangue non passano le cellule della carne o dei vegetali che ingeriamo perché queste vengono degradate nell’intestino.

Un meccanismo alternativo di danno si potrebbe avere se le proteine (oppure dei glucidi, cioè degli zuccheri) alimentari si comportassero da “apteni”, ossia da molecole capaci di indurre reazioni immunitarie soltanto se si legano alla superficie delle nostre cellule che in tal modo verrebbero riconosciute come “anomale” dal sistema immunitario, ma in letteratura non son descritti casi di anemie o di coliti emorragiche come effetti di intolleranze alimentari. Ben diverso è il “favismo”, condizione patologica in cui viene indotta una anemia emolitica per effetto di uno stress ossidativo in persone geneticamente predisposte quando ingeriscono delle fave.

Per quanto riguarda le reazioni da ipersensibilità da immunocomplessi, tale condizione viene a crearsi quando degli aggregati formati dagli anticorpi e dai loro bersagli (proteine) precipitano nelle pareti vasali attivando processi infiammatori responsabili di fenomeni quali la malattia da siero, alveoliti, glomerulonefriti e varie forme di vasculiti. Neanche in questo caso in letteratura medica sono descritte intolleranze alimentari che si manifestano con ulcerazioni cutanee, insufficienza renale, o danni cardiologici.

Perché allora vengono proposti i test IgG per intolleranze alimentari? Non entrerò nel merito delle politiche del malaffare che si intrecciano aimè troppo spesso con la sanità pubblica, lascio a voi lettori queste considerazioni.

Per completezza è necessario specificare che l’unico tipo di razionale per le IgG anti-alimento riguarda gli anticorpi IgG4. Si tratta di una particolare sottoclasse anticorpale che in alcuni casi l’allergologo può richiedere per dimostrare “laboratoristicamente” dei fenomeni di tolleranza immunologica acquisita nei confronti di un allergene. In parole povere in una persona allergica ad un polline o ad un alimento, dopo un percorso di cura basato sulla immunoterapia allergene specifica (il comune “vaccino antiallergico”) o sulla desensibilizzazione orale ad un alimento responsabile di allergie, si osserva una riduzione di IgE specifiche per quel polline o quell’alimento, e si osserva una aumento di IgG4, che nelle patologie allergie hanno un ruolo di “protezione”, quindi esprimono addirittura un dato positivo e non patologico.

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